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AMERICAN PIE

Bye-bye, Miss American Pie

Ecco appena sfornata American Pie, la newsletter del Federalista sulle elezioni americane giunta alla vigilia del fatidico Election Day. Come canta l’autore della canzone che ha dato il titolo a questo appuntamento quindicinale, avevamo iniziato “long, long time ago” – a gennaio nel gelo dell’Iowa – e il momento del commiato oggi è accompagnato da una tiepida estate indiana washingtoniana. In mezzo, l’ottovolante elettorale americano non ci ha certo risparmiato sorprese…

Ho cercato di portarvi con me durante le mie peripezie professionali e di raccontarvi passo dopo passo la corsa elettorale a stelle e strisce e tutto quello che le gira attorno. Ora siamo all’ultimo miglio, mancano tre giorni e c’è solo il tempo per un veloce “wrap up” (come dicono qui) e un bigino per i giorni a venire. Ci rivedremo -se mi è permesso-in tivù...

 

First Things First

Lo dice Wall Street, lo lasciano intuire i sondaggi, lo si evince confrontando le percentuali di quattro anni fa, lo confermano i bookmaker, lo si coglie sentendo la pancia della gente, lo rivelano gli endorsement ritirati, me l’ha detto mio cugggino... Negli ultimi giorni si sono susseguiti le fughe in avanti di chi preannuncia la vittoria di Donald Trump.

Economist Cover 1

E questo nonostante i sondaggi continuino a fotografare la contesa come un sostanziale pareggio da ormai un mese e mezzo, con oscillazioni e scosse da zero-virgola che spesso paiono contraddirsi nel giro di pochi giorni. Di certo, indipendentemente da chi sarà il presidente eletto, quella che stiamo vivendo è l’“era Trump”. L’ex immobiliarista newyorkese non è più un meteorite accidentalmente precipitato sui migliori anni della vita americana. Da quando si è affacciato sulla scena politica, l’ex presidente repubblicano occupa interamente lo spazio politico, elettorale e psicologico della destra americana e, per reazione, quello di sinistra. Quando non c’è incombe.

Economist Trumpification

L’ha brillantemente illustrato una copertina dell’ Economist, ma l’ha evidenziato ancora una volta l’attualità degli ultimi giorni e settimane quando con gesti (o sceneggiate) banali Trump ha saputo catalizzare tutta l’attenzione mediatica: servendo patatine fritte a un McDonald’s o improvvisandosi raccoglitore dell’immondizia dopo l’infelice gaffe di Joe Biden che ha bollato gli elettori repubblicani come “spazzatura”. E la capacità unica di Trump di occupare tutto l’orizzonte comunicativo è palese nella seguente meta-fotografia all’esterno del noto fast-food.

Foto Mac
La fotografa dilettante che immortala i fotografi che fotografano Trump commesso al fast-food - foto: Sara Pinkus

Se da un lato, ha sicuramente già “vinto” Trump, dall’altro le poche migliaia di voti in quei pochi Stati che decideranno chi tra Kamala Harris e The Donald sarà presidente lo faranno sulla scorta di tre percezioni: il costo della vita, i temi simbolici e identitari dell’immigrazione e dell'aborto e la fiducia o meno nella candidata democratica che nei cento giorni della sua candidatura sprint è riuscita a farsi conoscere solo in parte dall’elettorato americano. La sottolineatura sulla percezione è significativa perché i dati e i numeri su occupazione, salari, inflazione, ecc. conteranno solo in parte. A fare la differenza è la percezione rispetto al passato. Rimane illuminante, per me andare a riprendere alcune pagine di Elegia americana (“Hillbilly Elegy”) del poi candidato vicepresidente repubblicano, J.D. Vance, e cogliere come Barack Obama, il suo talento e il suo successo, fosse un motivo di imbarazzo, una promessa tradita, un disamore, chissà – forse anche - un capro espiatorio per la classe bianca. 

Elegia Americana

"Molti dei miei nuovi amici indicano il razzismo per questa percezione che si ha del Presidente. Ma il Presidente appare come un alieno a molti abitanti di Middletown, Ohio per ragioni che non hanno nulla a che fare col colore della pelle. Nessuno dei miei compagni di scuola superiore è andato a una università Ivy League. Barack Obama ha frequentato due di queste scuole ed è riuscito bene in entrambe. È brillante, ricco e parla come un professore di diritto costituzionale—che, ovviamente, è. Nulla di lui somiglia alle persone che ammiravo crescendo. Il suo accento—pulito, perfetto, neutro—è estraneo; le sue credenziali sono così impressionanti da essere spaventose, ha costruito la sua vita a Chicago, una metropoli densamente popolata; e si comporta con una sicurezza che deriva dalla consapevolezza che la moderna meritocrazia americana è stata costruita per lui. Naturalmente, Obama ha superato avversità a suo modo, avversità familiari a molti di noi, ma questo è accaduto molto tempo prima che noi lo conoscessimo.
Il Presidente Obama è comparso proprio quando molte persone nella mia comunità hanno iniziato a credere che la moderna meritocrazia americana non fosse costruita per loro. Sappiamo che non stiamo andando bene. Lo vediamo ogni giorno: nei necrologi di ragazzi adolescenti che omettono la causa della morte (leggendo tra le righe: overdose), nei perdenti dietro cui vediamo le nostre figlie sprecare il loro tempo. Barack Obama colpisce al cuore delle nostre insicurezze più profonde. È un buon padre mentre molti di noi non lo sono. Indossa abiti eleganti per il suo lavoro mentre noi indossiamo tute da lavoro, se siamo fortunati ad avere un lavoro. Sua moglie ci dice che non dovremmo dare ai nostri figli certi cibi, e noi la odiamo per questo—non perché pensiamo che abbia torto, ma perché sappiamo che ha ragione”. – Estratto da Elegia Americana, di J.D Vance (2016) [trad. Ilfederalista.ch]

Negli Anni Ottanta il reddito medio degli uomini bianchi senza laurea era del 7 per cento più alto della media nazionale, ma soprattutto era di oltre il 20 per cento superiore a quella dei maschi neri e latinos senza laurea. Oggi la situazione è rovesciata: i bianchi sono 10 punti percentuali sotto al reddito medio, mentre le minoranze etniche (a parità di livello di istruzione) sono poco al di sotto della media.

Pur avendo mantenuto intatto il proprio potere d’acquisto, gli americani bianchi si sono sentiti scavalcati da minoranze storicamente percepite come più povere e marginalizzate. Non un peggioramento della condizione economica, ma una crisi di status. E, come il J.D. Vance letterario e quello candidato, parte dell’elettorato bianco non l’ha presa bene.

Credo sempre che quando votano gli americani siano mossi da un grandissimo pragmatismo, una speranza non esplicitata che si possa sempre cambiare. Vince le elezioni negli USA chi sa rappresentare il cambiamento. Per questo rimane un test memorabile la domanda che Ronald Reagan suggeriva nel 1980 agli elettori prima di andare a votare: “State meglio di come stavate quattro anni fa?”. La differenza è che oggi, la risposta dell’elettorato pare condizionata da un’altra domanda: “Meglio rispetto a chi?”.

Cartina Usa Collegi Elettorali
fonte: 270towin.com

 L’inevitabile mappa della settimana

Ecco il mosaico elettorale americano con i suoi tasselli rossi e blu. Ogni Stato mette in palio i suoi grandi elettori: chi vince prende tutto (tranne in Maine e – attenzione – Nebraska, che distribuiscono i loro grandi elettori col sistema proporzionale). In totale i grandi elettori sono 538, per risultare eletti presidente i candidati devono ottenerne almeno 270.

Come funziona il sistema elettorale? Il sistema elettorale americano basato sui “grandi elettori” è complesso anche perché frutto di un accordo raggiunto per sfinimento durante la stesura della Costituzione americana, allo scopo di garantire un equilibrio tra rappresentatività (il numero degli abitanti) e rappresentanza (il ruolo degli Stati). Niente di esotico per noi svizzeri. All’epoca non c’erano neppure i partiti, ma quel patto provvisorio divenne definitivo. Il sistema dei “grandi elettori” difatti consente che il Presidente degli Stati Uniti d’America non sia scelto a colpi di maggioranza dalle metropoli delle coste est ed ovest. Il numero di grandi elettori di ogni Stato è la somma tra i rappresentanti al Congresso (in proporzione alla popolazione) con l'aggiunta di due senatori.

Cosa guardare? Occhi puntati sui sette Stati chiave, quelli in bilico: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, North Carolina, Georgia, Arizona e Nevada. Il più importante è la Pennsylvania, il più popoloso tra gli Swing States, con i suoi 19 grandi elettori. In quasi tutte le simulazioni di vittoria, per diventare presidente bisogna vincere qui. Anche per questo, sia Harris sia Trump hanno concentrato nel Commonwealth della Pennsylvania i loro ultimi sforzi. Lunedì la democratica prevede tre comizi, tutti nella sola Pennsylvania (a Filadelfia, a Pittsburgh e ad Allentown, dove la maggioranza della popolazione è di origine ispanica).

Cosa attendere durante la notte elettorale? I primi due Swing States a chiudere le operazioni di voto sono la Georgia (alle 7pm locali, l’una di notte in Svizzera) e la Carolina del Nord (7.30pm, 01h30). Le proiezioni di questi due risultati saranno indicative del resto della nottata. In Pennsylvania i seggi chiuderanno alle otto di sera (2h), ma è uno Stato molto esteso: difficile che si conoscano i risultati presto. Per Arizona, Michigan e Wisconsin bisognerà aspettare le tre del mattino in Svizzera… Sarà probabile che l’esito di questi Stati sia too close to call, ossia talmente incerto delle proiezioni che nessuno dei grandi media si affretterà ad assegnare la vittoria in uno di questi Stati.

Quale la tempistica dei risultati? A meno di una sorprendente vittoria a valanga, è lecito pensare che difficilmente conosceremo il nome del futuro Presidente americano mercoledì mattina al risveglio in Svizzera.

Con il voto anticipato, circa un terzo degli americani ha già votato. L’afflusso pare lasciare intendere una partecipazione inferiore al 2020, ma superiore al 2016. Il voto in America sono elezioni in 50 Stati con 50 abitudini elettorali diverse. Anche in questa tornata, il conteggio delle schede potrebbe richiedere molto tempo. Nel 2020, la vittoria di Biden venne annunciata il sabato, quattro giorni dopo l’Election Day

E c’è pure il CongressoNegli ultimi trent’anni la vittoria di ogni presidente eletto è stata accompagnata dalla maggioranza al Congresso, sia alla Camera dei rappresentanti sia al Senato. Tutto lascia presagire che la Camera Alta passerà in mani repubblicane. La vittoria del Great Old Party pare certa in West Virginia e Montana. Ohio e Wisconsin sono in bilico, mentre le chance di successo democratiche sono aggrappate a Nebraska e Texas (anche se quest’ultimo ogni quattro anni pare una chimera).

La Camera dei rappresentanti parrebbe alla portata dei democratici, anche se il partito del Presidente guarda con preoccupazione l’emorragia di voti in due roccaforti blue, California e New York. Se dovessero perdere Casa Bianca e Senato, la Camera potrebbe diventare il fortino democratico per arginare o bloccare le iniziative di un’amministrazione Trump bis.

 

Spoiler: 1 X 2

Le possibili opzioni sono due. Anzi tre. Se vince Trump, aspettiamo la telefonata di Harris che riconosce la sconfitta. Se vince Harris, aspettiamoci a una serie di polemiche sulla regolarità del voto e ostruzionismi nella certificazione del risultato che potrebbero rendere il cammino verso l’insediamento (il 20 gennaio 2025) confuso, assai tossico, non al riparo di violenze.

Ancor prima dell’Election Day i repubblicani hanno presentato alcune cause contro possibili brogli e irregolarità. Se durante la notte elettorale dovesse perdurare l’incertezza è probabile che, come quattro anni fa, Trump annunci di aver vinto. Ma ci lasceremo sorprendere…

Vi è infine, un terzo scenario, che non è necessariamente fantapolitica: la contesa potrebbe finire in pareggio, in virtù del seggio in bilico dei quattro in Nebraska. Se i candidati raggiungeranno entrambi quota 269 grandi elettori, toccherà alla Camera dei rappresentati il 6 gennaio eleggere il Presidente. Non in modo proporzionale, ma in base alle delegazioni statali (ed è probabile che in questo caso, il pareggio implicherebbe una vittoria di Trump). L’ultima volta che un’elezione presidenziale finì pari fu nel 1824. Toccò alla Camera dirimere la questione votando John Quincy Adams. Non succede, ma dovesse succedere…

 

Ogni maledetto martedì

Come ogni quattro anni è curioso spiegare il perché negli Stati Uniti, a differenza di Svizzera (e Italia o Germania), non si vota la domenica, bensì “il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre”. La decisione fu presa dal Congresso nel 1845, per mettere ordine nel processo di voto dopo che per anni ogni Stato votava quando preferiva. In una società al tempo ancora fortemente agricola, fu scelto l’inizio di novembre perché non era più tempo di raccolto ma neppure ancora inverno.

La domenica – il giorno della settimana nel quale per solito si vota in quasi tutti i Paesi occidentali – fu esclusa per rispetto ai cristiani, che erano la maggioranza della società. Il mercoledì era giorno di mercato quasi dovunque. Alla fine, fu scelto il martedì, per dare a tutti un giorno - il lunedì - per viaggiare e recarsi ai seggi. In seguito, fu deciso che l’Election Day dovesse essere il primo martedì “dopo il primo lunedì”, per evitare che ci fossero anni in cui le elezioni cadessero il primo novembre, festa di Ognissanti.

Oggi meno di circa il 2% della popolazione americana lavora nell’agricoltura e quasi per tutti il martedì è giorno lavorativo… ma certe tradizioni, così radicate, sono rimaste ferme a quanto sancito nella legge 181 anni fa.

 

Io endorso, tu endorsi, egli endorsa

Follow the money. A costo di sembrare monotoni, anche questa volta parrebbe essere quella dei soldi la spiegazione della tempesta che ha investito il blasonato Washington Post. “Segui la pista dei soldi” fu la dritta che l’anonima Gola profonda diede ai due reporter del Post per svelare lo scandalo del Watergate cinquant’anni fa. Lo stesso consiglio parrebbe motivare la scelta della blasonata testata della capitale di non dare un endorsement nella sfida alla Casa Bianca.

Ma cosa sono questi endorsement? Sono una peculiarità delle campagne elettorali statunitensi. Politici, artisti e testate giornalistiche sono solite esplicitare pubblicamente il sostegno a un candidato. Un’indicazione di voto destinata ad aumentare la visibilità del candidato, a raggiungere nuove nicchie dell’elettorato, sebbene la sua efficacia sia ancor oggi discussa.

Bruce Springsteen, per fare un esempio, ha dato il suo endorsement tanto a candidati vincenti (Obama e Biden) quanto a candidati perdenti (Hillary Clinton e Kerry). E chissà che le uscite pubbliche a sostegno di Kamala Harris da parte di tutto lo star system, da Taylor Swift a Beyoncé, passando per LeBron James non finiscano per essere controproducenti...

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Non solo le celebrità esplicitano i loro endorsement. Negli Stati Uniti è prassi che pure i giornali dichiarino da che parte stanno. Non i giornalisti a cui viene assicurata l’autonomia, bensì i comitati editoriali alla guida delle testate. Un esercizio di trasparenza nei confronti dei lettori che può suonare tra l’ambiguo e l’ipocrita ma che ha una radicata storia.

Il New York Times, ad esempio, si è schierato per Kamala Harris, il New York Post di Murdoch Donald per Trump. E il Washington Post… nulla. Dopo aver preannunciato il proprio endorsement giovedì scorso, il quotidiano progressista della Capitale ha annunciato che per la prima volta dal 1972 non avrebbe dichiarato il suo appoggio a nessun candidato (dopo aver sostenuto pubblicamente tutti i candidati democratici dai tempi di Carter). Apriti cielo.

È questione di reale indipendenza”, ha spiegato tre giorni dopo il proprietario Jeff Bezos – fondatore di Amazon e di Blue Origin, azienda spaziale –, escludendo che la decisione fosse legata a interessi personali. La Blue Origin di Bezos, infatti, ha oltre 3 miliardi di dollari di contratti con il Governo federale, incluso il Pentagono e la NASA, e seguendo la pista del denaro parrebbe più che verosimile che il proprietario del Post abbia voluto mettersi al riparo da ritorsioni in caso di vittoria di Trump. L’andreottiano “a pensar male si fa peccato, ma…” non convince chi scrive sebbene sia allarmante che la decisione di bloccare l’endorsement a Kamala Harris sia avvenuta il giorno in cui il CEO di Blue Origin ha incontrato Donald Trump. 

Washington Post

A sorprendere sono due fatti. Durante la prima presidenza Trump, il Washington Post è stato schieratissimo, rivelando a suon di inchieste giornalistiche le malefatte della Casa Bianca repubblicana. Una scelta sottolineata dalla scritta sotto la testata: “Democracy Dies in Darkness”, la democrazia muore nell’oscurità. La scelta era stata pagante, premiata per la qualità giornalistica e apprezzata dai lettori in aumento. Per questo a pochi giorni dal voto stupisce l’endorsement censurato, tanto che l’ex direttore (da Pulitzer) ha tuonato, accusando i vertici del giornale di codardia.

Il secondo motivo di sorpresa è la reazione dei giornalisti e soprattutto dei lettori. Duecentocinquantamila abbonati (il dieci per cento!) hanno disdetto la sottoscrizione. Non smetteranno di essere liberal, ma non si riconoscono in un giornale. Una scelta drastica che mette con le spalle al muro il Post e rivela un’ambiguità americana dove i media tendono a dare al proprio pubblico solo quello che chiede. Torniamo indipendenti, torniamo alle origini”, ha detto Bezos. Dubbiosi che questa sia l’occasione giusta, di certo la strada da percorrere rimane lunghissima

 

Cose belle che vi consiglio

Una poesia: Mary Oliver è una delle poetesse più popolari negli USA. Viene spesso etichettata come ecologista, per la sua capacità di immergersi nella natura, ma il suo porsi di fronte al creato è quanto di più profondamente americano vi sia. Questo è “The Summer Day”: https://zeninthecity.org/poesia-meditazione/mary-oliver-giorno-destate/

• Una riflessione: non limitiamoci a inseguire i sogni, seguiamo piuttosto la realtà. È il provocatorio Commencement speech rivolto ai laureati di Princeton da Christopher Nolan, il regista di Batman, Inception e Oppenheimer. Qui: https://www.christianroepke.com/notebook/christopher-nolans-2015-princeton-commencement-speech

Una canzone… tratta dal film Re Leone della Disney. Provocatoria o premonitrice? https://www.youtube.com/watch?v=5WsZdDDQ8b0


MASSIMILIANO HERBER


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