Pie Olio Su Tela
American pie

Dove eravamo rimasti

Ben ritrovati con American Pie! Con la festa del Labour Day di lunedì scorso è finita l’estate americana e ritorna la nostra newsletter che racconta la corsa elettorale a stelle e strisce. Il nome di questo appuntamento, lo sapete, è un omaggio alla canzone di Don McLean e alla torta quintessenza dell’americanità. Insomma, pop e dolci, per scandire il conto alla rovescia verso il voto del 5 novembre.

 

First Things First

Le certezze democratiche (e di coloro che seguivano la campagna americana) hanno iniziato a sgretolarsi con un dibattito e fra tre giorni… si replica. Nuovo confronto tivù: cambiano gli attori, il luogo, il canale televisivo, ma l’attesa è ancor più grande del Biden vs. Trump di fine giugno sul ring CNN di Atlanta. Davanti alle telecamere di ABC a Filadelfia, per la prima volta si incroceranno Kamala Harris e Donald Trump.

I sondaggi nazionali danno leggermente in vantaggio la candidata democratica (47 % a 44 %), ma… (momento spiegone ;-) ) le elezioni statunitensi sono cinquanta elezioni statali diverse e a deciderle è l’esito di solo sei/sette Stati, gli “Swing States”, quelli “in bilico”: Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin. Harris sarebbe davanti in cinque di essi, ma il vantaggio è sempre al di sotto del margine di errore. Tanto più che nel 2016 e nel 2020 le indagini demoscopiche avevano sottostimato il sostegno all’ex presidente.

In questo clima di sostanziale parità il dibattito è destinato a scuotere nuovamente la campagna. Harris dovrà dimostrare cosa significhi rappresentare la novità dopo tre anni e mezzo di amministrazione democratica, di essere all’altezza del compito dopo una vicepresidenza che pareva averla confinata nelle retrovie, dovrà uscire dall’ombra di Biden, con proposte concrete e meno proclami. Trump dovrà invece cercare di riuscire in quello in cui ha fallito da quando si è ritirato Biden: etichettare Harris come un’esponente dell’élite californiana, nonostante lei si definisca una moderata della classe media, mostrarne le incoerenze rispetto a quando era candidata nel 2019 e azzoppare il quadriennio Dem alla Casa Bianca martellando su inflazione e immigrazione. Tutti cercheranno di parlare agli indecisi, alla terra di mezzo di un elettorato polarizzato. Lei ai giovani e agli indipendenti, al ceto medio afroamericano, agli elettori esausti dall’era Trump. Lui si rivolgerà ai giovani che solitamente non vanno a votare, agli uomini che non hanno studiato, agli afroamericani e agli ispanici maschi.

Davanti a loro una platea di americani incollati agli schermi e ancora 55 giorni di campagna. Come illustra una delle copertine del New Yorker di quest’estate: queste montagne russe elettorali danno i brividi, si sale in fretta, ma ancor più velocemente si può scendere…

Copertina New Yorker

Cartoline estive ( = riassunto delle puntate precedenti)

Altro che vacanze. L’estate della politica americana non ha precedenti. In otto settimane esatte è stata riscritta la corsa alla Casa Bianca. Da Atlanta a Chicago, dal primo dibattito televisivo con la debacle di Biden alla convention democratica che ha incoronato Kamala Harris. Cinquantasei giorni scanditi dal pressing dei papaveri del partito sull’81enne presidente, dall’attentato a Donald Trump in Pennsylvania, dal ritiro di Joe Biden e la candidatura in corsa di Kamala Harris che ha rivitalizzato le speranze democratiche e reso più incerto l’esito della campagna. In mezzo, due convention “riuscite”, la scelta di due candidati vicepresidente non sempre “riuscita” e un balzo nei sondaggi che ha mandato all’aria ogni pronostico azzardato prima del 27 giugno.

Le convention hanno entusiasmato le rispettive basi: quella repubblicana nella scelta quasi messianica del proprio candidato, quella democratica nella forza della macchina del partito capace di cambiare in un mese candidato, messaggio e tono. La convention di Milwaukee è stata quella del partito di Trump: nessun ex presidente, ex vicepresidente, ex candidato alla Presidenza era presente, tutto ruota attorno al carisma narcisistico di The Donald. La convention di Chicago ha messo in luce il peso della storia democratica con ben tre presidenti (Biden, Obama e Clinton) e un bel po’ del suo star system a sostenere la nuova candidata.

La scelta dei vice (la cui importanza è sempre un po’ sovrastimata) è riuscita solo in parte. Né la scelta di Trump, né quella di Harris hanno avuto l’ambizione di allargare la base dell’elettorato, bensì sono parse più preoccupate degli equilibri interni negli schieramenti. Walz ha portato una carica di empatia e un profumo di Midwest alla campagna di Kamala Harris, ma rimane un oggetto misterioso (cosa ne pensa della politica estera?) e il ruolo di silenzioso lacchè nella prima intervista ai candidati democratici non ha aiutato a chiarirne il profilo. Il repubblicano J.D. Vance dà un volto al futuro del Trumpismo, ma da aspirante VP pare l’antitesi del personaggio letterario descritto nel suo bestseller di successo, “Elegia americana”, tanto da risultare il candidato vicepresidente meno popolare dai tempi di Sarah Palin (ricordate? Era il 2008…).

L’esito di otto settimane sull’ottovolante elettorale è che chi sembrava condannato alla sconfitta ora è in testa nei sondaggi e chi pareva destinato alla rielezione ora segue nei sondaggi. Ci sono altre otto settimane, per (ri)scrivere di nuovo la storia.

Ny Post
Le molte prime pagine dedicate a Joe Biden a luglio dal Post, quotidiano conservatore di New York

Follow the Money

È stato un golpe, ripete ciclicamente Donald Trump, che avrebbe preferito Joe Biden come avversario. “Obama e Pelosi lo hanno cancellato in un giorno… senza alcun dibattito”, ha scritto il professor Barone Adesi in un commento non banale sul "CdT". E ancora: “Biden spedito in pensione da un clan di arrivisti” come mi ha whatsappato un amico…

L’addio in una domenica di mezza estate di Joe Biden, come è ormai abitudine in un’era di complottismi, infondati quanto seducenti, ha sollevato più di un quesito. Ma a ben vedere il ritiro shakespeariano di un presidente scopertosi troppo vecchio e l’immediato sostegno alla sua delfina sono la testimonianza della saggezza e del realismo di un -ancora una volta- sottovalutato Biden. Certo, in ventiquattr’ore, lo spazio mediatico è stato saturato dalla “febbre Kamala” che ha offuscato l’originalità del gesto di Biden, ma è rilevante sottolineare come dopo la défaillance dello stesso Biden al dibattito televisivo non vi è stato nessun tracollo nei sondaggi (andava maluccio prima e dopo). Ad allarmare simpatizzanti e candidati, deputati e senatori democratici (l’establishment del Partito, se volete… ) non è stata tanto la scoperta della senilità del Presidente, quanto il fatto che i finanziatori della campagna tra fine giugno e metà luglio avessero chiuso i rubinetti. Dietro le coltellate hollywoodiane a mezzo stampa dei Clooney & co. vi era questo semplice messaggio: basta donazioni, basta denaro a una campagna che non può essere vincente, basta soldi a un candidato che non potrà governare per quattro anni. E la politica negli Stati Uniti, e non solo, si fa con i soldi. Joe Biden lo sa e ha capito che la sua corsa era finita anzitempo. Tant’è vero che dal 22 luglio a inizio settembre la campagna di Kamala Harris ha raccolto 641 milioni di dollari. Nello stesso periodo Trump ne ha racimolati meno di un terzo (130 mio $). Joe Biden a giugno aveva ricevuto 127 milioni di finanziamenti, ma a luglio erano soltanto 95. In questa campagna miliardaria, più fondi vuol dire maggiore pubblicità, maggiori risorse sul terreno, più eventi per farsi conoscere e farsi votare.

Illuminante, in proposito, una recente intervista a Nancy Pelosi (qui dal minuto 21’’). Quando le viene chiesto come mai a 84 anni non lasci spazio ad altri candidati di San Francisco, la Speaker emerita racconta come negli ultimi vent’anni al Congresso abbia trascorso ogni giorno ore al telefono “per raccogliere milioni di dollari” e di quanto sia importante il suo legame personale con la rete di finanziatori del Partito, perché per “fare le battaglie politiche che ci stanno a cuore ci vogliono fondi”. Nessun ideale senza pragmatismo. E ciò non è un’esclusiva democratica, visto che la maggior parte dei Paperoni finanziatori foraggiano il partito repubblicano… Il tutto, naturalmente, con il palese rischio che il denaro possa distorcere la democrazia.

Joe Biden per 52 (cinquantadue!) anni ha bazzicato la Washington politica e questo contrappasso cinico e baro lo conosce. Non sappiamo cosa abbia prevalso, cosa si nascondesse nell’angolo cieco del suo cervello, quale sia stato il motore profondo nel suo cuore: l’umiltà o la rassegnazione, la fedeltà agli ideali del partito, l’evidenza dell’età che non lasciava scampo, la delusione per essersi trovato gran parte dei Democratici contro… Certamente, la consapevolezza del vecchio adagio della capitale politica americana – “segui il denaro” – gli avrà indicato l’inevitabile via d’uscita.

The Making Of The President Board Game
Un vecchio gioco di società sulle elezioni americane. Correva l’anno 1960

The way forward (no, non intendo lo slogan di Harris)

Un brevissimo calendario elettorale, per capire le principali tappe che ci porteranno all’Election Day.

10 settembre: dibattito presidenziale a Filadelfia (in diretta e in differita anche sulla RSI)

16 settembre: inizia il voto anticipato e per corrispondenza in Pennsylvania (seguiranno Minnesota, Virginia e poi altri)

17 settembre: la Federal Reserve potrebbe tagliare i tassi di interesse (il contraccolpo sull’economia potrebbe avvantaggiare Harris)

24 settembre: Assemblea generale delle Nazioni Unite. Forse il commiato di Joe Biden sulla scena internazionale; il conflitto in Ucraina e, soprattutto, in Israele sono due fattori che potrebbero cambiare l’umore dell’elettorato.

1. ottobre: dibattito tra i candidati vicepresidenti a New York

10 ottobre: pubblicazione dell’indice dei prezzi al consumo. Come va l’inflazione USA?

1. novembre: rapporto mensile sull’occupazione. L'economia rallenta o tiene?

5 novembre: il martedì dopo il primo lunedì di novembre si vota negli Stati Uniti. Attenzione: visto il sempre maggiore ricorso al voto per corrispondenza è possibile che i risultati non siano immediatamente noti la sera dell’Election Day. Nel 2020 fu necessario attendere 4 giorni. 

Usa Dnc
Una foto scattata dal mio collega Bertrand Guez a Chicago

“Chi vincerà?” (reporter non oracolo)

Chi vincerà? è la domanda che mi viene posta con maggior frequenza di questi tempi. Si può rispondere in base alle sensazioni, guardando i sondaggi, leggendo gli indicatori economici, ma il lavoro del giornalista è quello di raccontare quel che sta accadendo e cercare di spiegarlo, non di prevedere il futuro. Per questo tendo a rifuggire da pronostici e scommesse. Poi, odio sbagliarli e perderle. Negli Stati Uniti c’è qualcuno, invece, che si è fatto la nomea di oracolo. Si tratta di un professore dell’American University, Allan Lichtman, che dal 1984 ha azzeccato il risultato di tutte le presidenziali americane (con l’eccezione del quasi pareggio del 2000 tra Bush e Gore). Il suo metodo si fonda sulla convinzione che le elezioni siano soprattutto una valutazione dell’operato del partito in carica e lui per darla applica 13 chiavi di predizione. Queste:

Foto Chiavi Di Lichtman
Le 13 chiavi “vero/falso” elaborate da Lichtman. Se il candidato del partito alla Casa Bianca risponde affermativamente alla maggioranza di esse verrà (ri)eletto, altrimenti vincerà lo sfidante

Ebbene, magari qualcuno di voi obietterà sul punto 2 e 4 (ma la forza di Robert Kennedy si sta dissolvendo) e pure Lichtman ammette che la situazione internazionale potrebbe far cambiare le chiavi 12 e 13. Ma secondo questo Nostradamus a stelle-e-strisce, corrispondendo a 8 chiavi su 13, Kamala Harris a novembre sconfiggerà Donald Trump.

A voi decidere se crederci, incrociare le dita, mettere la bottiglia buona in frigo, fare gli scongiuri o le macumbe… o semplicemente aspettare.

Nota bene

Pur con tutta la comprensione per l’ansia preelettorale nel resto del mondo e le notizie di gossip politico che i nerd come il sottoscritto adorano (tipo “il fratello di Walz in Nebraska vota Trump” o “ex mammasantissima repubblicani come i Cheney votano Harris”), ma le attenzioni americane almeno fino agli ultimi giorni di ottobre, saranno comunque catalizzate da altro. Un esempio? Giovedì è iniziato il campionato professionistico di football... Kamala e Donald possono aspettare.

 

Cose belle che vi consiglio

• Gli Stati non sono più tanto Uniti. L’incontro al Meeting di Rimini sulle divisioni che caratterizzano la politica e la società americana: https://www.youtube.com/watch?v=oszQe1dr-7M

• C’è posta per te. La commedia con Tom Hanks e Meg Ryan piacerà agli appassionati del genere. Ma (ri)guardatelo avendo presente che il signor Fox è un personaggio realmente esistito. Si chiamava Leonard Riggio, figlio di un pugile di chiare origini italiane, ha rivoluzionato la vendita dei libri fondando nel 1971 la grande catena di Barnes & Noble. È morto la settimana scorsa a 83 anni. https://youtu.be/2U2rF1Z-Y0s?si=ZFQbHt3bE3D7_1w2

• Il lembo del mantello. Il racconto dello scrittore David Sedaris sull’incontro di Papa Francesco con il mondo dell’umorismo a giugno. Più sarcasmo che ironia, ma non fa sconti, nemmeno a se stesso. https://www.newyorker.com/magazine/2024/09/09/david-sedaris-meets-pope-francis

• Il miglior libro del 21esimo secolo. Una giuria di 504 tra romanzieri, poeti, critici e appassionati di letteratura ha stilato per il New York Times la classifica dei cento libri più belli di questo inizio millennio. E in testa c’è un’italiana: Elena Ferrante. La scelta pare un po’ esotica, ma l’elenco è gustoso, pieno di suggerimenti, permette di gettare uno sguardo su cosa si legge al di qua dell’Atlantico e si può pure spuntare la lista per vedere quanti di questi romanzi si sono letti e quali si vorrebbero sfogliare. https://www.nytimes.com/interactive/2024/books/best-books-21st-century.html

 

Post Scriptum: Oggi, sabato 7 settembre, andrò a vedere il concerto di Bruce Springsteen. Lo ascolto da trent’anni o giù di lì e sono due anni che aspetto arrivi a DC. L’anno scorso il concerto fu rinviato a causa di un’ulcera e ora eccoci qui. Springsteen ha raccontato l’America, ma non ricordo una canzone dedicata all’apple pie, alla torta di mele. Non sono un suo fan molto zelante e così ho googlato. E ho trovato una registrazione del 1971. Il brano si intitola “Pretty Little Woman” e certamente ne ha scritti di migliori, ma il complimento all’amata descritta non poteva che essere “all’amore così dolce come un’apple pie”:

https://youtu.be/SKlCDDAWNx0?si=2s5TKr-6mj1bD4h1

MASSIMILIANO HERBER

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