Europa, popoli, popolari, populisti
Elezioni europee, dopo la conta dei voti si distribuiscono pagelle a vincitori e vinti e si almanacca sulle future maggioranze che guideranno l'UE. Ma se da una parte c'è qualche imbarazzo nel chiamare per nome la forza politica che ha fatto l'Europa e continua a garantirne la stabilità, il centro, ovvero il Partito Popolare, dall'altra spesso, non conoscendo i meccanismi istituzionali (complicati) dell'UE, si disquisisce su cose che non esistono nella realtà. Ne parliamo con Mario Mauro che per 10 anni (2004-2014) è stato Vicepresidente del Parlamento europeo. C'è poi una scoperta che abbiamo fatto a proposito di un tema contiguo, che ci tocca da vicino come svizzeri, intenti a negoziare con Bruxelles il rinnovo degli accordi bilaterali. Ebbene, succede anche ai francesi, che pure dell'UE fanno parte, di lamentarsi (e in modo pesante) dell'invadente primato del diritto dell'Unione su quello nazionale, nonché della parzialità della Corte di Giustizia europea nel dirimere le cause. Una questione su cui tenere gli occhi ben aperti.
Sembra che nessuno –nei media mainstream- voglia dirlo fuori dai denti: il centro, e più precisamente i partiti popolari sono i veri vincitori di queste elezioni europee, e sono quelli che hanno messo un argine all’avanzata dei partiti sovranisti e antieuropeisti di destra. È così? Lo chiediamo a lei, Mario Mauro che, dopo il lungo servizio nel Parlamento di Strasburgo, ha fondato una formazione politica dal nome inequivocabile: “Popolari per l’Italia”.
C'è un'espressione francese molto chiara che definisce il ruolo che avranno i popolari in questa legislatura e cioè “incontournable”: i popolari sono inaggirabili, non sono aggirabili per trovare un accordo di gestione della legislatura, questo sia nell'ipotesi più probabile di una riconferma dell’alleanza in atto, quella tradizionale con socialisti e liberali, sia invece nel caso si volesse valutare non dico un’alternativa a questa alleanza, ma un suo allargamento…
Su questo torneremo. Ma anzitutto, è possibile individuare gli elementi che formano un denominatore comune tra le diverse formazioni europee di centro?
Il denominatore comune di quelli raggruppati dal Partito Popolare Europeo è appunto che si riconoscono nel Partito Popolare Europeo. La matrice di questi partiti è normalmente o di tradizione cristiano-democratica o di tradizione liberale.
Ma per esempio la CDU tedesca viene solitamente collocata a destra e qualificata come “conservatrice”: è questa la sua vera natura?
Direi proprio di no. Questo è un modo di leggere le cose “da sinistra”, nel senso che la sinistra mette a destra tutto ciò che non è la sinistra. Ad esempio, per la sinistra erano di destra anche Renzi e Calenda, nonostante Renzi avesse fatto il segretario del PD. La CDU tedesca, in realtà, è una classica formazione che in Italia chiameremmo di “centro che guarda a sinistra”. La CSU bavarese è qualcosa di diverso, con un patrimonio più conservatore, ma la CDU proprio no, è il partito della Merkel, che infatti ha creato la “Grosse Koalition” con i socialdemocratici.

Torniamo sugli scenari che si stanno disegnando in queste ore. Lei parlava di “allargamento” e non di “alternativa“ a una maggioranza che farà in ogni caso perno sul PPE. Allargamento includendo quali formazioni?
Sicuramente non sarà possibile allargare includendo la sola ECR [il gruppo dei Conservatori e Riformisti, di cui fa parte Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni], ma dovrebbe essere fatta in quel caso allargando contemporaneamente sia all'ECR che ai Verdi.
E per quale ragione?
Perché i socialisti in queste ore stanno dicendo che loro senza i Verdi non intendono formare un'alleanza di Governo; e l'altra condizione che pongono è che venga esclusa l'ECR. Allora, delle due l’una: non possono tramutare la sconfitta in una vittoria e chiedere che i popolari diventino associati in una maggioranza di cui però sarebbero la minoranza (e questo succederebbe se l'alleanza venisse estesa anche ai Verdi, perché Verdi, socialisti e liberali sarebbero maggioritari rispetto al P.P.E); quindi o la maggioranza sarà quella attuale riciclata, con socialisti, liberali e popolari e basta, senza i Verdi, oppure sarà allargata sia con i Verdi che con l'ECR: in tal modo l'alleanza che ne risulterebbe sarebbe più del tipo “Governo di unità europea” (che non ci starebbe neanche male, considerato il problema della Guerra).
Una soluzione che i popolari potrebbero accettare?
Sì, penso che il PPE potrebbe ritenersi soddisfatto, nel senso che potrebbe contenere la spinta “a sinistra” (soprattutto su programmi tipo green deal e agricoltura) grazie alle presenze dei partiti dell'ECR; ma potrebbe parimenti contenere, grazie ai rosso-versi, anche la spinta “a destra” che verrebbe imposta dai partiti dell’ECR. A me comunque sembrano tutti atteggiamenti negoziali, penso che alla fina si ricostituirà l'alleanza che ha retto l’ultima legislatura.

Lo status quo, dunque. Ma non sarebbe troppo risicata, una maggioranza di 403 parlamentari in un Parlamento di 732 membri?
Direi che un margine di una trentina di parlamentari rispetto al quorum è sufficiente per votare il Presidente della Commissione e in teoria anche per votare i commissari; assolutamente insufficiente però per gestire tutti i dossier, perché su ogni dossier le delegazioni si spaccano.
In Italia si dice che sarebbe difficile avere Forza Italia nella maggioranza senza imbarcare anche la Meloni, visto che FI e Fratelli d’Italia fanno parte della coalizione che governa il Paese?
Qui si sta facendo confusione. Non si può leggere lo scenario europeo come se fosse una discussione italiana e neppure lo si può leggere nella logica di una maggioranza parlamentare. Questo perché l'Unione Europea è fatta di due istituzioni pregnanti. Una è il Parlamento, dove si capisce con chiarezza quale sia la maggioranza, ma l'altra è il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, dove le maggioranze sono d’altro genere, perché nel Consiglio non si vota per testa, in quanto il voto è ponderato rispetto al numero di abitanti di ogni Stato.
Quindi Giorgia Meloni, che vi fa parte, può facilmente mettere il veto, laddove si decida all’unanimità…
Infatti, e la nomina del Presidente della Commissione la fa il Consiglio all’unanimità, anche se poi dovrà essere approvata dal Parlamento, perciò il Consiglio dovrà tener conto del risultato delle elezioni europee; ecco perché la von der Leyen è favorita, in quanto espressione del gruppo politico che ha vinto le elezioni del Parlamento europeo. Quindi è facile dire “la Meloni va tenuta fuori dalla maggioranza”. In Consiglio le devono riconoscere una partecipazione, se no il Presidente della Commissione non lo nominano.

Questo però non è un problema che riguardi solo la Meloni, riguarda lei come riguarda Sanchez o Macron.
Diciamo che nel Consiglio europeo è la ragion di Stato a prevalere, quindi siccome ci vuole un Presidente della Commissione, non è la maggioranza parlamentare che ne determina la nomina ma sono gli accordi tra i capi di Stato e di Governo (che poi dovranno trovare la copertura parlamentare). Ma la Meloni –per restare su di lei-avrà interesse a dire il suo “sì”, perché se non riparte la Commissione Europea (guidata o meno dalla von der Leyen) finisce il flusso dei soldi verso il PNRR italiano…
Circola una tesi (per esempio sostenuta da Catherine Fieschi del Centro Robert Schuman di Firenze) secondo cui l’estrema destra in Paesi come la Francia, la Germania o l’Italia avrebbe sottratto elettori che storicamente avrebbero votato per i partiti di sinistra. Conclusione: “Parte della storia della destra è il fallimento della sinistra in alcuni di questi Paesi”. Sta in piedi?
Guardi, secondo me è una faccia della medaglia. Personalmente ho invece notato che, sebbene popolari e populisti non abbiano affatto le stesse idee, hanno spesso gli stessi elettori. Esempio: quando ha stravinto in Italia il Movimento 5 Stelle, ha stravinto nelle tradizionali regioni bianche, in Sicilia, nel Sud, non nelle tradizionali regioni rosse. Credo che questo avvenga sulla base di un ragionamento molto semplice: quando la visione politica è orientata al coraggio, a prevalere sono i partiti popolari, quando la visione politica è orientata alla paura, quindi alla coltivazione delle paure per far scattare meccanismi di difesa che producono consenso, se ne avvantaggiano i partiti di natura populista. Altrove, come in Germania o in Francia, può essere stato un elettorato di sinistra a cedere elettori a formazioni di matrice demagogico-populista. Perciò direi che se c’è un fallimento all’origine del fenomeno "populismo" è un fallimento dei partiti, nel senso che quando i partiti non sono più capaci di proporre una visione positiva e si mettono a rincorrere il rumore degli elettori, ovviamente chi la spara più grossa vince.

Accordi Svizzera-UE: occhio alla Corte di Giustizia (piace poco anche ai francesi)
Restiamo in qualche modo nella scia del tema precedente con un tuffo nelle acque, in superficie al momento tranquille, dei rapporti tra Berna e Bruxelles. Siamo in fase di negoziati tra Confederazione e Unione Europea, in vista di un aggiornamento degli accordi bilaterali adottati ormai vent’anni fa. Lo scopo? L’UE desidera passare a un regime in forza del quale, in determinati campi, il nostro Paese si adatti in maniera cosiddetta “dinamica” al diritto sempre in fieri dell’UE.
Qualche giorno fa su Le Figaro due intellettuali francesi, Arnaud Montebourg – socialista, ex Ministro francese dell’economia e dello sviluppo industriale - e Marcel Gauchet – filosofo politico –, lamentavano con toni di greve condanna (“L’Europa è un colpo di stato permanente al diritto”) quella che potremmo definire una continua “invasione di campo” delle istituzioni europee, della Commissione e della Corte di giustizia (CGUE), nelle vicende dello Stato francese. Ipertrofico nazionalismo gallico? Oppure c’è qualcosa di interessante anche per noi elvezi?
Abbiamo sottoposta la questione a un giurista esperto di diritto comunitario e di diritto commerciale internazionale, l’avvocato italiano Maurizio Lo Gullo (peraltro consulente dello studio Cugini di Lugano), già professore a contratto di diritto dell’UE all’Università degli studi dell’Insubria e di diritto internazionale privato e processuale all’Università di Milano.
Avvocato Lo Gullo, quale lezione possiamo imparare da questi malumori francesi , tenendo un occhio al non meno travagliato rapporto che la Svizzera intrattiene con l’UE?
Gli intervistati da Le Figaro evocano un problema da sempre sentito nell’UE: quello del deficit di democrazia nei processi decisionali. Nell’ambito dell’UE infatti non è stata assunta una struttura istituzionale in cui i tre tradizionali poteri sono nettamente divisi. Ciò porta a una ipertrofia normativa che offre l’impressione di una forte invasione di campo nelle competenze nazionali. Come dimostrato da diversi studi le istituzioni comunitarie tendono a esercitare i propri poteri interpretando in modo piuttosto estensivo i limiti delle proprie competenze, in contrasto coi principi di sussidiarietà e proporzionalità. I giudici dell’UE sono molto timidi nel sindacare atti delle istituzioni UE che si fondano su valutazioni tecniche e gli atti della Commissione in materia di diritto della concorrenza. La Corte di Giustizia UE non svolge adeguato controllo sulle decisioni delle altre istituzioni dell’UE. La stessa Corte UE tende ad interpretare spesso la propria funzione in modo “creativo”, reputandosi investita della funzione di cooperare nel processo di sviluppo dell’integrazione unionale.
Che pertinenza può avere tutto ciò con la Svizzera, che comunque non fa parte dell’UE?
Se al momento della stipulazione di accordi CH-UE si percepiranno una serie di impegni, la natura dinamica dell’ordinamento UE, unita alla detta attitudine “creativa” delle istituzioni, potrà portare a vedere progressivamente erose sfere ritenute, a torto o a ragione, di competenza interna, elvetica. Occorre avere una chiara rappresentazione dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni UE per decidere come e fino a che punto vincolarsi alla necessità di recepire normative non statiche ma in costante sviluppo. La Svizzera ha appena avuto esperienza negativa di una simile giurisprudenza evolutiva (per non dire ideologicamente orientata) per essere stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per asserita violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (sul clima, ndr).

Dei (contro)limiti ci vogliono
Gli Stati membri UE cosa fanno per limitare la “creatività” dei giudici europei?
A priori si applica il principio del primato del diritto UE sul diritto nazionale nei settori di competenza dell’UE. Mancano però adeguati strumenti di garanzia contro atti delle istituzioni dell’UE che travalichino i limiti delle competenze assegnate dai trattati istitutivi. Qui dovrebbero intervenire le cosiddette funzioni giurisdizionali di controlimite.
Prima di capire perché sono importanti anche per la Svizzera, cosa si indica con queste funzioni?
La dottrina dei controlimiti si è affermata soprattutto nell’ambito dei rapporti fra ordinamenti nazionali e trattati internazionali. Da qui è passata anche ai rapporti fra diritto dell’UE e diritti degli Stati membri. Alcune Corti costituzionali si sono riservate di valutare la compatibilità con valori costituzionali interni delle norme dei trattati UE e del diritto derivato, ma secondo me dovrebbe poter operare anche nel caso di atti esorbitanti delle istituzioni UE, che ledono direttamente le funzioni sovrane degli Stati non trasferite all’UE.

Dove vediamo applicati questi controlimiti in Europa?
La dottrina dei controlimiti contro l’UE è stata applicata dalla Corte costituzionale italiana per difendere i termini italiani per la prescrizione di alcuni reati tributari. La Corte Costituzionale Tedesca è quella che più incisivamente si riserva di vigilare affinché gli atti delle istituzioni europee si mantengano nei limiti dei diritti fondamentali attribuiti ai cittadini tedeschi. Si tratta di vedere se questa dottrina sarà capace di trovare applicazione anche in altri settori coperti da garanzie costituzionali, come nel diritto di proprietà e di iniziativa economica.
E la Svizzera?
La Svizzera, ove i negoziati avessero successo, non diverrà comunque membro di un ordinamento sovranazionale sui generis quale quello dell’UE. Questo aspetto dovrebbe essere tenuto nella massima considerazione. Il Tribunale Federale dovrebbe riuscire a preservare il suo potere di fare piena e corretta applicazione della dottrina dei controlimiti e di tutte le sue funzioni di giudice supremo di una delle Parti contraenti. Il TF dovrà trattate i futuri accordi appunto come trattati internazionali e non come trattati che possano configurare una qualche forma di integrazione della Svizzera nel sistema dell’UE, e rimanere garante della coerenza di tali normative di derivazione internazionale con la Costituzione Svizzera.

Più Tribunale Federale, meno corte UE
Come dovrebbero trattare i rappresentanti politici e diplomatici svizzeri su questo punto?
La Svizzera ha una grandissima tradizione di abile negoziatrice. Ritengo che il primo elemento da evitare sia il coinvolgimento vincolante della Corte UE nei meccanismi di soluzione delle controversie. Allo stato attuale si prevede la costituzione di un tribunale arbitrale che, tuttavia, sarebbe tenuto ad investire delle questioni la Corte di giustizia dell’UE. La decisione della Corte di Giustizia sarebbe vincolante. In questo modo, la Corte UE svolgerebbe una funzione direttamente rilevante per l’ordinamento svizzero, diventando un organo Comune UE-CH. Il Giudice di una della Parti verrebbe chiamato a risolvere eventuali controversie che dovessero insorgere in relazione all’interpretazione e all’esecuzione dei trattati.
Un problema se la corte UE è, come detto, “creativa”. Cosa fare, dunque?
Contro il pericolo di dover recepire valori giuridici confliggenti con valori fondamentali dell’ordinamento svizzero è necessario disporre di meccanismi di garanzia. Non è scontato che l’evoluzione del diritto UE proceda in coerenza con la volontà e i valori fondamentali dell’ordinamento svizzero. Da osservatore esterno e ammiratore della democrazia svizzera faccio fatica a comprendere perché il Governo elvetico non negozi una qualche forma, anche adattata, di adesione all’accordo EEA (lo Spazio economico europeo, ndr.), o che, almeno, coinvolga, in luogo della Corte UE, la Corte EFTA (Associazione europea di libero scambio). Questa corte, in composizione allargata, in cui cioè potrebbe sedere un giudice designato dalla Svizzera, potrebbe avvalersi già di una giurisprudenza propria, di un proprio stile e operare con la sensibilità di un giudice consapevole di dover amministrare questioni riguardanti non stati membri dell’UE, ma Stati che, pur volendo integrarsi in qualche misura nel mercato unico, perseguono un legame diverso e più attenuato con l’UE, capace di preservare maggiori spazi di sovranità.