Musica della Macchina
Fra le varie tendenze musicali che hanno segnato il XX secolo, quello della “Musica della Macchina” rappresenta uno degli indirizzi stilistici più affascinanti e frequentati. Il fenomeno, conosciuto anche col nome di “Urbanismo”, viene inserito oggi da studiosi e musicologi nel cosiddetto “Novecento storico”, in quanto tipica espressione dei «ruggenti anni Venti». In realtà questa avanguardia musicale lascerà tracce durature, che sfoceranno poi in una seconda temperie di innovazioni musicali tipiche del secondo dopoguerra, con uno sguardo inedito pure nel rapporto che intercorre fra tecnologia e produzione musicale.
Industrializzazione e «modernismo»
La belle époque – ossia quel periodo storico-culturale che grosso modo inizia dalla fine del sec. XIX fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale – fu un’epoca ricchissima di innovazioni tecnologiche. Il graduale sviluppo dell’industria che coinvolse Europa e Stati Uniti d’America aveva cambiato per sempre i connotati della società, travolgendo anche gli artisti: ora non si dovevano più cantare il sentimento della natura e la riflessione lirica ma, al contrario, le masse lavoratrici, i rumori delle città, i ritmi delle fabbriche, la velocità e le macchine. Dallo sviluppo delle ferrovie all’automobile, dal telegrafo alla radio, passando per i mezzi di riproduzione meccanica del suono come il grammofono e i nuovi mezzi espressivi come il cinema: era chiaro che il mondo non sarebbe stato più lo stesso.
Fu un gruppo di artisti italiani, capitanati dal poeta Filippo Tommaso Marinetti, a creare la prima avanguardia del XX secolo che prese coscienza dell’importanza dello sviluppo tecnologico nella società e dell’impatto dell’industrializzazione nell’arte: i Futuristi, i quali da Parigi pubblicarono il celebre Manifesto del Futurismo dalle Colonne del «Figaro» l'11 febbraio 1909. Nelle sue tesi tra il provocatorio e il geniale, Marinetti fa una celebrazione-compendio di tutto ciò che riguarda il «modernismo»: rompere con il passato, vivendo pienamente la contemporaneità andando veloci tanto quanto la tecnologia e le macchine, il cui fine supremo sarà la guerra «unica igiene del mondo». Già da questa sconcertante idea si evince che la belle époque era in realtà una polveriera pronta ad esplodere: la corsa al riarmo riguardava buona parte delle potenze europee e non mancavano di certo le tensioni internazionali.
Ma i Futuristi ovviamente non potevano trascurare l’importanza della musica per i loro scopi artistici, ed ecco apparire tre manifesti della musica futurista in pochi anni; il terzo di questi, L’Arte dei rumori di Luigi Russolo (1913), rappresenta una tappa fondamentale ai fini della «Musica della Macchina». In esso leggiamo: «La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, coll'invenzione delle macchine, nacque il Rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini. […] Ci avviciniamo così sempre più al suono-rumore. Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine, che collaborano dovunque coll'uomo».
Russolo, pittore di talento e musicista autodidatta, arriverà addirittura a creare degli strumenti musicali di sua invenzione, gli Intonarumori, che presentò in un concerto a Parigi nel 1921. Se da un lato suscitarono l’interesse di eminenti artisti e compositori, quali Piet Mondrian, Maurice Ravel, Sergej Prokof’ev, Darius Milhaud e Arthur Honegger, dall’altro non mancarono le perplessità di un’ampia fetta di pubblico; di fatto, nessun compositore celebre del tempo utilizzò mai gli intonarumori di Luigi Russolo nelle proprie composizioni.

Macchinismi Musicali
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, vi fu una crisi economica e sociale molto grave in Europa: l’elevatissimo numero di caduti, militari e in alcuni casi civili, nonché lo sviluppo tecnologico utilizzato ai fini di un massacro di enormi proporzioni – basti pensare che per la prima volta furono utilizzati gas asfissianti, sommergibili, carri armati ed aerei – determinò anche una crisi di coscienza artistica e musicale. Alcuni futuristi, inorriditi dalla guerra, si allontanarono dal movimento; altri artisti cercarono invece un «ritorno all’ordine» che potesse ricomporre il «caos» generatosi dalle avanguardie.
È in questo contesto che molti musicisti videro nella macchina un mezzo espressivo congeniale: se da un lato essa aveva dimostrato tutta la sua disumanità e la sua freddezza in guerra, dall’altro però poteva essere controllata dall’uomo attraverso degli input e delle istruzioni al fine di eseguire operazioni predeterminate. E siccome vi fu pure un recupero di forme «neoclassiche» da parte di molti compositori, la macchina poteva fungere non solo da «programma musicale», bensì consentiva, attraverso la sua rigida organizzazione, la dissimulazione delle forme musicali più antiche e comuni, quali ad esempio il corale, lo scherzo, la variazione, la forma-sonata, la sinfonia e così via. Il tutto attraverso un linguaggio spesso irto di dissonanze, dal ritmo incisivo e ossessivo, caratterizzato da ricercate combinazioni timbriche, complessità contrappuntistiche e da un uso estensivo della politonalità.
Precursori di tali tendenze furono Igor Stravinskij col balletto Le Sacre du Printemps del 1913, la cui tumultuosa, scandalosa première è rimasta leggendaria; Alfredo Casella con la suite Pagine di Guerra op. 25bis (1919); e Gustav Holst con la Suite per grande orchestra The Planets (1920), contenente il famoso Mars, the Bringer of War, considerato da alcuni critici «il pezzo più feroce mai scritto».
Nel Sacre Stravinskij concepisce una musica brutale e primitiva, dai ritmi ossessivi e meccanici: ne Gli auguri primaverili-danza delle adolescenti che segue l’introduzione, sembra di ascoltare una catena di montaggio in piena attività:
Casella dal canto suo farà tesoro della lezione stravinskiana, aprendo i suoi «film musicali» Pagine di guerra con una massiccia Sfilata di artiglieria pesante tedesca nel Belgio:
Per quanto riguarda infine Gustav Holst e il suo Marte, portatore di guerra, il compositore costruisce il brano attraverso due semplici espedienti: un basso ostinato e un crescendo. Trattasi sostanzialmente di una marcia spaventosa ed apocalittica, tutta giocata su un ossessivo ritmo irregolare in 5/4 e su aspre dissonanze. Il musicista inglese voleva dare un’impressione terrificante della guerra, un minaccioso mostro meccanico di piombo e di acciaio:
La produzione musicale “macchinistica” successiva di altri autori sarà caratterizzata invece da una certa ambivalenza: da un lato la macchina fa paura, ma dall’altro affascina. Si passa quindi da Pacific 231 di Honegger, ispirato ai movimenti di una locomotiva in corsa, alla Sinfonia n°2 in re minore op. 40 di Sergej Prokof’ev, definita dal suo autore «sinfonia di ferro e acciaio», proseguendo con il balletto Il Passo d’Acciaio, sempre di Prokof’ev, Poème Mécanique di Knudåge Riisager, Mechanisms, Airplane-Sonata e Ballet Mécanique di George Antheil, Machines Agricoles di Darius Milhaud, Sinfonia Tecnica di Eugène Zador, Cavalli a vapore di Carlos Chavez, Fonderia d’acciaio di Aleksandr’ Mosolov, il balletto Il bullone di Dmitrij Šostakovič.
Tracce vistose di musica della macchina o urbanismo le ritroviamo inoltre nel balletto Il Mandarino Meraviglioso di Béla Bartók, nella Sinfonia n° 4 in do minore op. 43 di Dmitrij Šostakovič, nella Kammermusik n° 1 di Paul Hindemith, dove viene inserita una sirena in organico, al pari di Amériques di Edgard Varèse, vasto affresco orchestrale che cerca di catturare il caos delle metropoli, tutti composti fra gli anni ’20 e ’30 del Novecento.
Seppure in minor misura, possiamo trovare un’influenza della musica della macchina perfino in brani coevi apparentemente distanti da quell’estetica, quali il Boléro di Maurice Ravel, la Rhapsody in blue e An American in Paris di George Gershwin, le musiche per il film Acciaio di Walter Ruttmann ad opera di Gian Francesco Malipiero. E si va ancora oltre, con la Sinfonia n°3 «Liturgique» di Honegger, la Sinfonia n° 7 «Leningrad» di Šostakovič e la Sinfonia in tre movimenti di Stravinskij le quali, composte durante la Seconda Guerra Mondiale, riprendono ritmi e stilemi tipici di tale tendenza.
Ho citato solo i casi più noti, ma in realtà ve ne sono molti di più e l’elenco sarebbe troppo lungo. Uno dei primi a cogliere l’ambivalenza nei confronti del mondo urbanista-macchinistico comunque non fu un musicista, bensì un poeta del calibro di Ezra Pound che, in aperto contrasto coi futuristi italiani, così affermava da Parigi: «le macchine non sono né letterarie né poetiche; un tentativo di poetizzare le macchine diventa spazzatura», riconoscendo però che «le macchine sono musicali [...] un uomo può imparare da loro ciò che altri uomini vi hanno inserito dentro, così come può imparare da altre discipline artistiche. Un dipinto di una macchina è come un dipinto di un dipinto».

Fonderia d’acciaio di Aleksandr’ Mosolov e Metropolis Symphony di Michael Daugherty
Per dare un’idea concreta della Musica della Macchina e della sua duratura influenza, ho scelto due brani musicali brevi ma significativi: Fonderia d’acciaio op. 19 del russo Aleksandr’ Mosolov (1926) e un estratto dalla Metropolis Symphony del compositore statunitense contemporaneo Michael Daugherty (1994). Fonderia d’acciaio venne composto intorno al 1926 e in origine si chiamava Officina – musica della macchina. Esso in realtà faceva parte di un balletto, Acciaio, di cui è l’unico brano rimasto poiché il resto del balletto è andato perduto.
Il pezzo suscitò vivi consensi di critica e pubblico sia nell’allora U.R.S.S. sia all’estero, tanto che in patria venne visto come «un inno alla macchina e all’operaio». A tutt’oggi, Fonderia d’acciaio è l’unico brano che viene eseguito nelle sale da concerto di Mosolov. Formalmente semplice – è costruito seguendo il classico schema A-B-A – ma complesso dal punto di vista orchestrale ed armonico, nella sua brevità rappresenta un momento storico importante nello sviluppo dell’avanguardia musicale, basato com’è sull’intervallo più dissonante di tutti, il tritono (anticamente diabolus in musica) e su un ostinato che dà l’idea di un movimento a pistoni, meccanico e motorico. Un’orchestra di vaste proporzioni – riflesso di certa opulenza tardoromantica – consente inoltre di sperimentare un linguaggio politonale. Nella ripresa in fortissimo, colpi di incudine scandiscono con violenza l’ossessività del ritmo:
La Metropolis Symphony di Michael Daugherty invece si ispira ai fumetti di Superman ed è in cinque movimenti, i quali possono essere eseguiti anche separatamente. Tipica espressione del post moderno e del post minimalismo, è una sinfonia ricca di colore, fantasia e forza inventiva. Eseguita per la prima volta nel 1994 dalla Baltimore Symphony Orchestra sotto la bacchetta di David Zinman – committente dell’opera – la Metropolis Symphony si propone come sintesi fra il mondo «pop» del fumetto e il mondo «colto» della musica sinfonica: in essa sono percepibili varie influenze e un certo eclettismo – in particolare tra la musica colta europea ed americana, l’Urbanismo degli anni ’20, le colonne sonore cinematografiche e i ritmi del jazz e del rock – racchiusi in forme sempre riconoscibili: uno stile estroso ed accattivante che colpisce fin dal primo ascolto.
Un esempio è il primo movimento di questa Sinfonia, Lex, ironico ripensamento del macchinismo musicale: il caos della metropoli è rappresentato da ritmi energici, raffinatezze armonico-timbriche, effetti orchestrali magistrali e, ancora una volta, da un ostinato. Nel coloratissimo organico figurano anche due fischietti, a riprova del fatto che certe conquiste stilistiche resistono al tempo, venendo riproposte in nuova guisa e adattate ai tempi correnti.
GIACOMO FIRPO